Pioggia di settembre
Veniva su dalla valle un vento freddo che faceva ingiallire le foglie innanzi tempo. Si vedevano dalla finestra i boschi chiazzati di giallo: un giallo malinconico sotto tutte quelle nubi, tra le nebbie che salivano e ridiscendevano la valle come greggi al pascolo. Comparivano più su i pascoli, verso le cime ondulate, e qualche vacca vi si attardava facendo squillare il campano.
Il professore disse a se stesso, come parlando con un estraneo: «Autunno!».
E di nuovo si sentivano sbattere nel silenzio i campani, come suoni che venissero da lontananze inarrivabili.
Il professor Emanuele, guardava ancora attraverso i vetri quando incominciò a piovere.
Una pioggerellina sottile sottile, come tanti fili di acciaio che tenessero sospesa la terra alle nubi. Ed in breve tutto fu velato di pioggia e i campani delle vacche erano sempre più lontani, i passi delle donne nelle stanze erano sempre più lontani, il rintocco delle ore era sempre più lontano, sempre più, finché il professore non udì più che la pioggia scrosciare con monotonia rabbiosa e si sentì solo di solitudine spaventosa.
Agli uomini come il professor Emanuele, rabbiosi contro sé stessi ed il mondo, la pioggia di settembre spunta gli artigli: rimangono con una malinconia struggente che sale su dal più profondo del cuore, da quelle solitudini abissali che non sanno scandagliare e per cui ogni uomo è un enigma a se stesso.
Sale su come una nebbia che vela tutto attorno a loro e li fa ritrovar soli.
Il professore s'appoggiò ai vetri a contar le gocce d'acqua che passavano attraverso un forellino della grondaia: una, due, tre, dieci, cento... una, due... tre. E i numeri si ammucchiavano, si moltiplicavano nella sua memoria con una rapidità vorticosa: gli giravano attorno, lo penetravano: uno, due, tre... dieci... cento... Si ritrasse improvvisamente con un moto d'orrore: gli pareva che quello fosse il supplizio della goccia di cui tanto si parla, ma intensificato, centuplicato, condotto all'esasperazione.
Si sentiva piombar le gocce una per una nelle profondità remote dell'anima, riempirla, soffocarla. Gli pareva che tutta quella pioggia, tutti quei fili d'acqua gli si aggrovigliassero nel cervello come catene serpentine, se ne sentiva colmo.
Si ritrasse. No, no; contar le gocce non andava. Non aveva contato gocce tutta la vita?
Ma sì: i giorni, le ore, gli attimi, gocce d'acqua che aveva visto arrotolarsi e cadere, e piombare nel l'anima ed ammucchiarvici.
Gocce: i tormenti della fede negata dell'amore negato, della vita negata nel nome della ragione. Aveva guardato e contato tutto: le cifre s'erano aggiunte alle cifre ed era avvolto da una rete inestricabile. E tutte quelle gocce che era andato ammucchiando negli abissi dell'anima, gli erano risalite a poco a poco alla superficie, ne aveva avuto paura: ora, ad un tratto si sentì soffocare dal suo passato.
Si sentì pieno di se stesso e dei suoi giorni e dei suoi tormenti: un vaso colmo, un lago che ha raggiunto gli argini. Non un mare: e ripeteva a se stesso il lamento di Giobbe: «Numquid mare ego sum» Sono io forse il mare?
Era alla fine, in lui non c'era più posto per nulla: nessuna sensazione, nessun pensiero, nessun amore. Aveva toccato le sue colonne d'Ercole: e di là, non c'era più nulla.
La misura era colma: era un uomo che non ha più nulla da dire, da fare e da sapere. Un cadavere ambulante.
Tremò a questa terribile visione d'un professor Emanuele che girava le strade, cadavere, e diceva: «Fate, dite, lavorate: io sono già arrivato: il mio vaso è colmo » e si faceva lavare dalla pioggia e circondare dalla nebbia.
- La pioggia. Guardò fuori dalla finestra per vedere se piovesse ancora: sì, e c'era, sotto la pioggia, nei campi, una strana figura d'uomo che lavorava.
Lavorava di zappa ed aveva indosso un paltò nero, con le maniche inverosimilmente lunghe: non ne poteva vedere il volto, ma fu colpito da quel paltò nero così ampio per un omiciattolo che sembrava da lontano tutto stretto in se stesso. Il professore dimenticò per un istante la sua visione per esaminare, con tutte le forze dell'anima e del corpo quel contadino che zappava con indosso un paltò impossibile.
S'alzò, si mise il soprabito, uscì: non sapeva che cosa andasse a fare, perché si alzava e se ne andava con tutta quell'acqua che le nubi lasciavano piovere sulla terra.
Prese per i campi e fu ben presto vicino al contadino che zappava: sedette su una pietra bagnata e si mise ad osservarlo così intensamente che l'uomo sentì il peso di quello sguardo e si voltò.
Sorrise e gli si fece vicino. Sorrideva con tutta la larghezza della bocca e con gli occhi dolci di una dolcezza senza fine. Quando gli fu ben vicino, si fece serio. Improvvisamente si fece serio per tutto il volto che la pioggia carezzava, e si guardava il paltò sbrindellato e verdastro sulle spalle.
«Mi chiamo Calimero, non lo sai? » disse. E pare- va che temesse chissà che dalla risposta del professore.
«Non lo sai? »
Le sue parole spalancavano abissi, vi camminavano sopra senza paura. Il professor Emanuele sentiva dietro quelle parole gli abissi inscandagliati dell'anima di un idiota.
«Sì che lo so» rispose tranquillamente. Il volto dell'idiota si illuminò.
«Calimero, Calimero, Calimero» ripeté: senza un accento particolare.
Il professore gli chiese: «Hai freddo? ». Ed accennava al paltò.
L'idiota faceva segno di no, che non aveva freddo. E perché si metteva il paltò a lavorare se non aveva freddo?
Allora Calimero si fece a raccontargli una lunga storia di cui il professore non capì altro che quel paltò era come un talismano, un «menabuono».
Il viso dell'idiota rifletteva con una mobilità impressionante tutti i significati nascosti di ogni parola. E siccome parlava calmo, senza fretta, il professore aveva tempo di sentire in sé vibrazioni diverse ad ogni parola.
E una cosa che non succede spesso, ma quando succede fa paura il sentire in ogni parola un mondo diverso.
Ci sono uomini che diventano pazzi ripetendo sempre la stessa parola.
Calimero portava la barba di un mese ed era orribile. Ma il professore lo osservava con attenzione.
L'idiota scoppiò d'un tratto in un fiume di parole contro gli spiriti che non lo lasciavano lavorare e si mise a piangere e ridere spasmodicamente, parlando, parlando come se fosse la sua ultima ora di vita e dovesse parlare ora per un'eternità di silenzio.
Che cosa c'era in quell'uomo? Il professore credette di capire che anche quello era un vaso pieno; ma pieno di mistero, pieno di ombre che non si riflettevano su nessuna parete, piene d'infinite vite quasi sepolte nel silenzio. E si sentì preso da pietà: un senso nuovo lo struggeva. Nuovo: non l'aveva mai provato: malinconia, desiderio, disperazione, spasimo. Tutto nel suo spirito, nel suo vaso colmo.
E gli pareva che qualche cosa stesse per succede- re: qualcosa di nuovo, portato su dalle nebbie ondeggianti che venivano su come eserciti bianchi all'attacco delle cime.
D'improvviso l'idiota atteggiò il volto a stupore e poi a paura e poi a terrore pazzo e gridando: «Calimero! Calimero! Calimero!» si mise a correre con tutte le sue forze. E correndo accennava alle nebbie che sorvolavano velocemente le cime. C'era nel suo grido un terrore di cui non si rendeva conto il professore, che da parte sua teneva dietro al pazzo, incespicando, cadendo, chiamando, con una gran voglia di piangere. Un lampo lo illuminò: il fiume! Calimero correva verso il fiume in piena, vorticoso, pauroso. E ben presto gli fu presso e cacciando un urlo vi si gettò a copofitto dalla riva. E il professar Emanuele piangeva, e le lacrime gli si mischiavano in volto alla pioggia che aveva ripreso a venir giù con forza. Vide, contro un sasso, la testa spaccata del pazzo ed il paltò rigonfio, con le maniche inverosimilmente lunghe.
Un pensiero gli nacque nel cuore.- questa doveva essere la sua fine. Un vaso colmo che si spacca contro un sasso. L'uomo finito che beve il fiume fino alla morte.
Questa: doveva. Non c'era alternativa... Proprio non c'era alternativa?
Ma e Dio? C'era? Cos'era? Dov'era?
Gli si affacciò alla mente nella sua lineare e spaventosa semplicità la domanda che si fa ogni uomo quando è pieno di sé, ed ha bisogno di vuotarsi di sé per colmarsi in una nuova misura, di qualcosa d'altro, di più grande, di eterno.
Proprio non c'era, oltre la sua misura, che la misura della morte?
E Dio? Cos'era? Chi era? Dov'era?
Dio, il Dio d'Abramo, d'Isacco, di Giacobbe. Cristo. Non la complicata o astratta concezione filosofica. Dio-realtà: non Dio-idea.
E improvvisamente vide tutto chiaro davanti a sé, tutta la sua via segnata. E comprese la sua misura: Dio.
Alzarsi verso Dio allarga gli orizzonti e le misure. Voler essere noi stessi, è rinchiudersi, non veder più nulla.
Ed ora che capiva di doversi dimenticare, gli pare- va d'essersi ritrovato. Ora che, guardando il paltò che la corrente gonfiava, capiva d'essere invecchiato male, gli pareva di ritrovare la sua vera ed eterna giovinezza, come si ritrova un anello d'oro sotto la polvere del tempo.
Gianni Rodari - 4 ottobre 1936
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