mercoledì 3 febbraio 2010
Gianni Rodari - Fine di Maggio di un pazzo
Fine di Maggio di un pazzo
Ladisluo Robustiniani, pazzo tranquillo. La sua vita è stata un continuo prendere posizione di fronte a se stesso, un tormento di squadrare il suo spirito, scinderlo nei suoi elementi, analizzarlo, disegnarlo a linee rette e linee curve, trovarne il principio, il mezzo, la fine.
L'hanno ritirato in questa piccola casa di salute provinciale da cui si può ammirare il lago Maggiore, il grande Verbano dalle acque azzurre, come uno specchio ove il tempo abbia scavato rughe e solchi mutabili.
Pazzo tranquillo. Alto, magro, lo sguardo assente e la smorfia cinica. Attraverso i suoi calcoli è venuto alla convinzione d'essere Dio, l'Alfa e l'Omega di cui parla Giovanni nell'Apocalisse.
Questa è l'ultima sera d i maggio: le nubi distendono fantasie bizzarre sui monti bruni ed illimitati.
Ladislao Robustiniani sta seduto sulla terrazza belvedere. Guarda malinconicamente il lago tranquillo e le policromie del tramonto.
Gli sembra che il sole stia per precipitare in un mare di sangue, rosso dell'orgia d'un popolo oltreumano che beva l'oblio della notte.
Guarda le bizzarre nubi che si raccolgono meste attorno al sole.
Fin da ragazzo Ladisluo Robustiniani ha avuto una mania geometrica delle posizioni chiare, delineate, sicure, che si potessero abbracciare d'un colpo solo.
Avvertiva nella sua anima un tumulto di aspirazioni e di passioni che lo trascinava e gli dava quasi un senso di sgomento. Sentiva in sé qualche cosa di cui aveva paura, che gli sfuggiva, che non rientrava nel suo sguardo di osservazione. Si ripiegava su se stesso, si studiava, si diceva: «lo sono così, così e così!».
Con frenesia. Con ira. Voleva scoprire tutto se stesso ai propri occhi: poter esprimere la propria essenza, con una frase sola. Gli pareva, a volte, di conoscersi molto bene e di avere ciononostante una opinione errata di se stesso.
Sentiva in sé un secondo essere, un paradossale doppio io su cui con curiosità e con avidità sperimentava la sua psicologia geometrica.
Professore di matematica in una scuola milanese, stimato assai dai colleghi per la chiarezza delle sue sintesi e delle sue risposte a teoremi complicati; e l'immenso desiderio di conoscersi, crebbe in lui spa¬ ventosament.
La follia incominciò sui venticinque anni.
Vegliava le notti intere, la testa fra le mani, cercando la proposizione che gli desse in modo esatto ed elementare il suo tormento d'uomo.
S'era innamorato d'una giovane donna di dubbia moralità e studiava il suo amore come un anatomico studia il suo pezzo.
Tormento delle piccole cose; rimorso di desideri soddisfatti e di piaceri ottenuti; rabbioso lavoro pel pane quotidiano; continuo contatto con l'umanità che gli pareva stupida ed equivoca.
Ma sotto tutto questo egli sentiva qualche cosa di diverso, d'indefinito, d'indefinibile, d'infinito.
Si sorprendeva talvolta a meditare su linee rette tracciate a caso o su un calamaio rovesciato.
Ebbe paura dell'incipiente follia. Divenne strano e cupo. L'anormalità del suo contegno lo fece ogget¬to di sospetti e di leggende. Si diceva che avesse uc¬ciso, che il suo passato fosse una tragedia continua¬ta: lo si guardava come si guardano i geni o i pazzi.
Tuttavia a trent'anni si sposò. A trentuno ebbe dal¬la donna sua un figlio che chiamò Giovanni, dal nome del profeta di Patmos di cui conosceva il libro a memoria, di cui leggeva le pagine fremendo ed esaltandosi.
Avrebbe potuto rinascere alla semplicità in quel piccolo fardello di carne che gli veniva di lontano. Avrebbe potuto annientarsi in quella vita nuova: in¬vece con la nascita di Giovanni si fece più cupo e selvatico. Considerò per un anno se avesse fatto bene o male a mettere al mondo il ragazzo. Ora due elementi nuovi d'ignoto erano entrati nella sua anima: la donna ed il bimbo. Egli si sentiva ora triplice: uomo, marito, padre.
Ebbe fretta di tirare delle conclusioni. Per semplificare le cose, le confuse, le ingrandì, le spinse ai limiti
Ora non sapeva più nemmeno a che cosa pensasse.
Ben presto la sua passione per la moglie si spense. Si separarono tranquillamente, la donna tenne con sé Giovanni.
Cos'era ormai, del resto, Giovanni per lui? Carne.
Non anima. Come poteva aver dato vita ad un'anima egli che non sapeva definire la propria?
Si sentì più libero quando fu solo.
Pensò che se indefinibile era la sua anima, essa non esisteva.
Od era qualche cosa di più di un'anima umana: Dio?
La lenta evoluzione della sua follia lo portava ormai a considerarsi diverso, sostanzialmente dal resto dell'umanità.
Matematicamente doveva concludere d'essere Dio.
Lo scoperse una notte che dopo lunghe ore di meditazione aveva tracciato inconsciamente una retta.
La fissò, stupefatto come se non avesse fatto altro che tracciar rette e curve nella sua vita.
La fissò impaurito come davanti a qualche cosa di misterioso, d'inconcepibile, d'assoluto. Questo egli era dunque! Una linea retta, senza principio né fine, di cui né le sue meditazioni avevano potuto fissare le dimensioni, né l'amor famigliare era riuscito a fare un cerchio chiuso senza espansioni: Dio! «L'Alfa e l'Omega» dell'Apocalisse, «il principio e la fine Colui che è, che era e che ha da venire, l'Onnipotente».
Nel delirio si alzò, si guardò le mani, sfissò nello specchio gli occhi sbarrati come l'ultima luce nel l'abisso della morte, mormorando: «Dio!... Dio!». Poi cadde pazzo per sempre.
Il pazzo contempla il crepuscolo. Vaghe ombre si sono abbassate sul lago, sui villaggi, sui monti bruni ed illimitati.
Nel suo cuore vaga stasera un desiderio, indefini¬bile, perché ormai il suo destino è di non potersi più definire. Uno sconfinato desiderio nuovo. Egli sta seduto, osservando con lo sguardo melanconico.
Ha quarant'anni e ne dimostra sessanta.
La sua melanconia è tragica.
Lo divora senza ch'egli se ne possa rendere conto.
Ora sale dalla vallata vicina un lento rintoccare di campane. I villaggi cantano in quelle pure voci di bronzo la loro pace feconda.
Giungono quassù profumi d'incenso ed echi di canti.
L'ultima sera di maggio il popolo si raduna nelle chiese a cantare le glorie di Maria. Dicono le litanie e suonano le campane.
Un patriarcale inno d'amore sale da tutte le valli a questo pazzo tranquillo che ascolta le voci della sera.
Egli si scuote. Aveva forse bisogno della dolcezza inesprimibile di questo suono? …Don…don…don.
Egli che non ha amato mai nessuno all'infuori di se stesso.
È forse questa la sua colpa? Non avere amato e sentire il bisogno dell'amore nel fondo dell'anima.
Si scuote. Si lascia cullare a lungo da questa musi¬ca che gli potrebbe richiamare la prima Ave Maria! e non gli può richiamare più nulla, ma lo culla e lo accarezza come una mano stanca.
Quando le campane tacciono e l'infermiere, venu¬to tacitamente a farlo rientrare, gli posa una mano sulla spalla e si china piano piano su di lui, nei suoi occhi è una lacrima.
La prima.
L'ultima.
Domani Ladisluo Robustiniani tornerà a credere d'avere creato Adamo, Napoleone e Dante.
Gianni Rodari 31 maggio 1936
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento