sabato 27 febbraio 2010

Gianni Rodari






"Tutti gli usi della parola a tutti" mi sembra un bel motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo".




domenica 21 febbraio 2010

Guido Gozzano - Pasqua




A festoni la grigia parietaria
come una bimba gracile s'affaccia
ai muri della casa centenaria.

Il ciel di pioggia è tutto una minaccia
sul bosco triste, ché lo intrica il rovo
spietatamente, con tenaci braccia.

Quand'ecco dai pollai sereno e nuovo
il richiamo di Pasqua empie la terra
con l'antica pia favola dell'ovo.

Maria loretta Giraldo - Dall'uovo di Pasqua





Dall'uovo di Pasqua
è uscito un pulcino
di gesso arancione
col becco turchino.
Ha detto: "Vado,
mi metto in viaggio
e porto a tutti
un grande messaggio".
E volteggiando
di qua e di là
attraversando
paesi e città
ha scritto sui muri,
nel cielo e per terra:
"Viva la pace,
abbasso la guerra".

lunedì 15 febbraio 2010

8 marzo - Festa della donna



Donne Appassionate

Le ragazze al crepuscolo scendendo in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti,lungo l'acqua remota.

Le ragazze han paura delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant'è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai corpi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che il greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all'aperto, nel lenzuolo raccolto.

Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
alle gambe, e contemplando il mare disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal Mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
Ci son occhi nel mare, che traspaiono a volte.

Quell'ignota straniera, che nuotava di notte
sola e nuda, nel buio quando la luna,
è scomparsa una notte e non torna mai più.
Era grande e doveva esser bianca abbagliante
perchè gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.

Cesare Pavese

Pablo Neruda - La mimosa





Andavo da San Jeronimo
verso il porto
quasi addormentato
quando
dall’inverno
una montagna
di luce gialla
una torre fiorita
spuntò sulla strada e tutto
si riempì di profumo.
Era una mimosa.

8 marzo - Festa della donna









Corpo di donna...

Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche, 
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono. 
Il mio corpo di rude contadino ti scava 
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra. 
Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli 
e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione. 
Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un'arma, 
come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda. 
Ma viene l'ora della vendetta, e ti amo. 
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo. 
Ah le coppe del seno! Ah gli occhi d'assenza! 
Ah le rose del pube! Ah la tua voce lenta e triste! 
Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia. 
Mia sete, mia ansia senza limite, mio cammino incerto! 
Rivoli oscuri dove la sete eterna rimane, 
e la fatica rimane, e il dolore infinito.

Pablo Neruda

8 marzo - Festa della donna



Donna

Donna, non sei soltanto l'opera di Dio,
ma anche degli uomini, che sempre
ti fanno bella con i loro cuori.
I poetai ti tessono una rete
con fili di dorate fantasie;
i pittori danno alla tua forma
sempre nuova immortalità.
Il mare dona le sue perle,
le miniere il loro oro,
i giardini d'estate i loro fiori
per adornarti, per coprirti,
per renderti sempre più preziosa.
Il desiderio del cuore degli uomini
ha steso la sua gloria
sulla tua giovinezza.
Per metà sei donna,
e per metà sei sogno.

Rabindranath Tagore

venerdì 12 febbraio 2010

Roberto Piumini - C'era un gatto cavaliere


C'era un gatto cavaliere
che portava una farfalla,
la portava per piacere
a una gatta rossa e gialla.

C'era un gatto innamorato
che cantava tutta notte:
la sua gatta ha conquistato
ma si è preso delle botte.

C'era un gatto cavaliere,
un campione d'eleganza:
ora lo si può vedere
dentro quell'ambulanza.

Roberto Piumini - Se i libri fossero





Se i libri fossero di torrone,
ne leggerei uno a colazione.

Se un libro fosse fatto di prosciutto,
a mezzogiorno lo leggerei tutto.

Se i libri fossero di marmellata,
a merenda darei una ripassata.

Se i libri fossero frutta candita,
li sfoglierei leccandomi le dita.

Se un libro fosse di burro e panna,
lo leggerei prima della nanna.

Roberto Piumini - La Lucertola Gonzilla




C'era una volta una lucertola molto prepotente: era più grossa delle altre e si chiamava Gonzilla. Quando vedeva un'altra lucertola, le andava davanti e diceva:
"Non rubarmi il sole, tu!"
"Ma io non te lo rubo, Gonzilla! Di sole ce n'è per tutte!"
"Storie! Il sole che prendi tu non lo prendo io!" gridava Gonzilla. "Vattene, o ti mordo la coda!"
Più in là c'era un'altra lucertola al sole. Gonzilla le correva davanti.
"Questo sole è per me, ladruncola!"
"Ma di sole ce n'è per tutte!"
"Sciocchezze! Il sole che prendi tu non lo prendo io!", e la scacciava.
Così faceva Gonzilla, giorno dopo giorno. La vita delle lucertole era difficile, e allora decisero di andare da Malibù, una vecchia gazza saggia, che viveva su un'acacia.
Malibù ascoltò le lucertole, e così rispose:
"Domani a mezzogiorno nascondetevi tutte, e lasciate fare a me."
Il giorno dopo Malibù volò su un ramo vicino a dove Gonzilla stava prendendo il sole. Non c'era nessun'altra lucertola nelle vicinanze. La gazza guardò un poco Gonzilla,
poi tolse da sotto le piume una lente che aveva rubato qualche anno prima sulla nave di un pirata. La mosse di qua e di là, spostandosi sul ramo, finché riuscì a concentrare un raggio di sole sulla testa di Gonzilla, che se ne stava beata a occhi chiusi.
"Ahiahia!" gridò la lucertolona, e aprì gli occhi. Da sopra la testa saliva un filo di fumo.
"Cosa succede, cara?" disse Malibù, dopo aver nascosto la lente sotto l'ala.
"Succede che mi sono bruciata qui sopra!"
"E' stata la luce del sole, cara!" disse Malibù, muovendo la coda pennata.
"Il sole? Ma come? Il sole non mi ha mai scottato in questo modo!" disse Gonzilla.
"Eh già…Ma vedi, adesso le altre lucertole non ci sono più…" disse la gazza. "Prima la luce andava su tutte: ora che sei sola cade tutta su di te, e ti scotta!"
"Davvero?" disse Gonzilla, e si mise a correre di qua e di là chiamando: "Sorelle, amiche, lucertole care, tornate, presto!"
Fu così che Gonzilla smise di disturbare le lucertole, e non si scottò più.
Racconto tratto dal volume

"Mi leggi un'altra storia?"

R. Piumini - T. Altan

Lo scaffale d'Oro
Einaudi Ragazzi
2001

giovedì 11 febbraio 2010

B. Garan - Filastrocca della palla


Palla verde palla verde
chi si trova e chi si perde.
Palla rotta palla rotta
pesta i piedi alla marmotta.
Palla gialla palla gialla
batte l'ali la farfalla.
Palla piatta palla piatta
non mangiare la mia gatta.
Palla bella palla bella
va a sederti su una stella.
Palla blu palla blu
da un bacio a chi vuoi tu.

Sabrina Giarratana - Filastrocca dell'albero







Albero abbraccio e respiro del mondo
Strade radici che arrivano in fondo
Chissà da dove arriva il tuo suono
Suono che parla di un cuore buono
Chissà da dove arriva il tuo canto
Canto di foglie, che vibra d’incanto
Mentre ti ascolto, ti parlo e ti penso
E il mio discorso diventa denso:
Tieniti stretto a questa terra
Cresci più libero che in una serra
Afferra il cielo, portalo a noi
Tendi i tuoi sogni più in alto che puoi
E se qualcuno ti vuole strappare
Tu vienimi a chiamare.

N. Codignola - Filastrocca della coccinella








Filastrocca della coccinella
che sembra finta da tanto è bella,
che a primavera, dovunque va,
indossa solo vestiti a pois,
che se sul braccio ne trovi una
puoi stare sicuro che avrai fortuna.

N. Codignola - Filastrocca della cicala






Filastrocca della cicala
che struscia struscia ala su ala,
che fa un rumore talmente forte
che copre il suono del pianoforte
e che a sentirla ovunque siate
capite subito che è piena estate!

Sabrina Giarratana - Filastrocca del vento





Vento stregato, vento fatato
Bocca che soffi con tutto il tuo fiato
Vento ventaccio, vento ventaglio
Lama affilata che quasi mi taglio
Vento smarrito, vento impazzito
Cupo ululato di lupo impaurito
Vento arrogante, vento potente
Braccio che tiri impazientemente
Ecco, mi hai preso: tirami su
Ma dopo, rimettimi giù.

Geronimo Stilton - Filastrocca del topino



Un formaggino qui,
un tartufino lì;
oh, che bello mangiucchiare;
oh, che delizia rosicchiare;
sono goloso e me ne vanto,
te lo dico e te lo canto.

Sabrina Giarratana - Filastrocca del sole




Sole che ridi e mi baci la faccia
Sento il calore delle tue braccia
Con una mano mi copro gli occhi
Mentre mi tingi di scarabocchi
Macchie, lentiggini e piccoli nei
Tutti i tuoi segni saranno miei
Saran di tutti, saranno belli
Racconteranno che siamo fratelli
Figli del mondo, e come ogni gente
Nati dal tutto e dal niente.

Sabrina Giarratana - Filastrocca del mare





Mare di onde, mare di mare
Se tu mi culli sto qui ad abitare
Mare di cielo, mare di sabbia
Se tu mi abbracci mi passa la rabbia
Mare di sole, mare di fuoco
Se tu mi scaldi sto qui ancora un poco
Mare di aria, mare di vento
Se tu mi parli sono contento.

Gianni Rodari - Filastrocca brontolona





Filastrocca brontolona,
brontola il tuono quando tuona,
brontola il mare quando ha in testa
di preparare una tempesta,
brontola il nonno: "Ah, come vorrei
ritornare ai tempi miei...
Non c'erano allora, egregi signori,
elicotteri e micromotori,
e senza fare tanto fracasso
in carrozzella si andava a spasso".
Accende la pipa, inforca gli occhiali
e affonda il naso nei giornali...
Ma tosto sogginge: "Però...però...
senza lo scooter, che figura fò?
Il mondo cammina, il mondo ha fretta!"
Viva il nonno in motoretta.

Jolanda Restano - 8 Marzo






Donne, donne, donne
mamme, figlie o nonne
mogli, zie o cugine:
tutte assai carine!

Sorelle, amiche, cognate
superimpegnate,
attive e divertenti
belle e avvenenti!

Maestre, madri o spose
frizzanti e spiritose
affabili e gioiose:
vi offro le mimose!

Con pantaloni o gonne
donne, donne, donne!

domenica 7 febbraio 2010

M. H. Giraldo - CARNEVALE






Pulcinella, per strafare,
da un pittore macchiaiolo
un ritratto si va a fare.
Quello, forse, chi lo sa,
perchè vuole dimostrare
la sua grande abilità,
dappertutto schizza e insozza
con i mille e più colori
di una vecchia tavolozza.
Pulcinella è disperato
perchè il candido vestito
da ogni parte s’è macchiato.
Poi ci pensa, fa un inchino:
- Che invenzione! Per quest’anno
mi travesto da Arlecchino.

L. Maraldi - Arlecchino





Con un saltello ed un inchino
eccomi a voi sono Arlecchino.
Son tra le maschere di Carnevale
la più festosa, la più geniale.
Il mio vestito? Fu una sorpresa,
lo cucì la mamma con poca spesa
perchè potessi ben figurare
al gran ballo di Carnevale.
So far scherzetti, son biricchino,
rido alla vita come un bambino.
Saluto tutti anche a distanza
con un leggero passo di danza.

Proverbi di Carnevale




A Carnevale ogni scherzo vale.

Carnevale al sole, Pasqua al fuoco.

E' come un cardo senza sale, far col marito il Carnevale.

Se pensi sempre al male, buonanotte al Carnevale.

A Carnevale il povero a zappare

A Carnevale ogni scherzo vale...e chi si offende è un gran maiale

Carnevale o quaresima, per me è la medesima

Quando il padre fa carnevale, ai figlioli tocca far quaresima

Chissà perché - Il Carnevale
Video









Viva i coriandoli di Carnevale




Viva i coriandoli di Carnevale,
bombe di carta che non fan male!
Van per le strade in gaia compagnia
i guerrieri dell'allegria:
si sparano in faccia risate
scacciapensieri,
si fanno prigionieri
con le stelle filanti colorate.
Non servono infermieri
perchè i feriti guariscono
con una caramella.
Guida l'assalto, a passo di tarantella,
il generale in capo Pulcinella.
Cessata la battaglia, tutti a nanna.
Sul guanciale
spicca come una medaglia
un coriandolo di Carnevale.

Gabriele D'Annunzio - Carnevale vecchio e pazzo




Carnevale vecchio e pazzo
s'è venduto il materasso
per comprare pane, vino,
tarallucci e cotechino.
E mangiando a crepapelle
la montagna di frittelle
gli è cresciuto un gran pancione
che somiglia ad un pallone.
Beve, beve all'improvviso
gli diventa rosso il viso
poi gli scoppia anche la pancia
mentre ancora mangia, mangia.
Così muore il Carnevale
e gli fanno il funerale:
dalla polvere era nato
e di polvere è tornato.

Brighella





Son Brighella, attaccabrighe.
Ho la casacca con le righe,
righe verdi ed alamari,
sempre le tasche senza denari.
Mangio molto, non spendo mai:
niente soldi e niente guai!

Gianduja


Giacca marrone, panciotto giallo
porto i colori del pappagallo;
calzoni verdi, calzette rosse,
col vino mi curo tonsille e tosse.
Naso paonazzo, cappello tricorno
son Gianduia perdigiorno.
Se non vi basta il cappellino
c’è la parrucca col codino.

Gianni Rodari - I viaggi di Pulcinella


Pulcinella andava a Biella,
montò sopra una carrozzella,
e se il cavallo era attaccato
certo a quest'ora era arrivato.
Pulcinella andava a Torino,
montò sopra un cavallino,
e se il cavallo non era di legno
andava a Torino e anche a Collegno.

G. Gaida - Il girotondo delle maschere




E' Gianduia torinese
Meneghino milanese.
Vien da Bergamo Arlecchino
Stenterello è fiorentino.
Veneziano è Panatalone,
con l'allegra Colombina.
Di Bologna Balanzone,
con il furbo Fagiolino.
Vien da Roma Rugantino:
Pur romano è Meo Patacca.
Siciliano Peppenappa,
di Verona Fracanappa
e Pulcinella napoletano.
Lieti e concordi si dan la mano;
vengon da luoghi tanto lontani,
ma son fratelli, sono italiani.

Gianni Rodari - L'invenzione di Pulcinella




Signore e signori, fatevi avanti
più gente entra, più siete in tanti!
Correte a vedere la grande attrazione,
la formidabile invenzione.
Non sono venuto su questo mercato
per vendere il fumo affumicato.
Non sono venuto a questa fiera
per vendere i buchi del gruviera.
Il mio nome è Pulcinella
ed ho inventato la moz - za - rel - la!

Da questa parte, signori e signore
son Pulcinella il grande inventore!
Per consolare i poveretti
ho inventato gli spaghetti.
Per rallegrare a tutti la vita
creai la pizza Margherita!
Olio, farina, pomodoro
nulla vale questo tesoro.
Ad ascoltarlo corre la gente,
si diverte... e non compra niente!!

La canzone delle mascherine




Un saluto, a tutti voi;
dite un po’ chi siamo noi?
Ci guardate e poi ridete?
Oh! mai più ci conoscete!
Noi scherziam senza far male,
Viva, viva il Carnevale!
Siamo vispe mascherine,
Arlecchini e Colombine,
diavolini, follettini,
marinai
bei ciociari
comarelle
vecchierelle:
noi scherziam senza far male,
viva, viva il Carnevale!
Vi doniamo un bel confetto,
uno scherzo, un sorrisetto;
poi balliamo
poi scappiamo.
Voi chiedete:
Ma chi siete?
Su pensate,
indovinate.
Siamo vispe mascherine,
Arlecchini e Colombine,
diavolini, follettini,
marinai
bei ciociari
comarelle
vecchierelle:
noi scherziam senza far male,
viva, viva il Carnevale!

Attilio Cassinelli - Le Mascherine

Balanzone gran dottore,
Pantalone gran signore,
Arlecchino e poi Brighella, ecco
arriva Pulcinella.
Furbe, vispe e biricchine...
benvenute mascherine!

Attilio Cassinelli - Le maschere di Carnevale

Arlecchino ti presento
tutte toppe ma contento.
e Brighella suo compare,
cosa pensa di brigare?
Scaramuccia faccia buffa
sempre pronto a far baruffa.
E Tartaglia che non sbaglia,
quando canta non tartaglia.
Meneghino che, pian piano,
va a passeggio per Milano
e Pierrot vediamo qui
che è venuto da Paris.
Vuoi sapere chi è costui?
Peppe Nappa, proprio lui
Pulcinella saggio e arguto
che da Napoli è venuto.
E Gianduia piemontese
che di tutti è il più cortese.
Da Bologna ecco che avanza
Balanzon dalla gran panza.
Tutti insieme fan colazione
e chi paga è Pantalone!

mercoledì 3 febbraio 2010

Gianni Rodari - Pioggia di settembre






Pioggia di settembre

Veniva su dalla valle un vento freddo che faceva ingiallire le foglie innanzi tempo. Si vedevano dalla finestra i boschi chiazzati di giallo: un giallo malinconico sotto tutte quelle nubi, tra le nebbie che salivano e ridiscendevano la valle come greggi al pascolo. Comparivano più su i pascoli, verso le cime ondulate, e qualche vacca vi si attardava facendo squillare il campano.
Il professore disse a se stesso, come parlando con un estraneo: «Autunno!».
E di nuovo si sentivano sbattere nel silenzio i campani, come suoni che venissero da lontananze inarrivabili.
Il professor Emanuele, guardava ancora attraverso i vetri quando incominciò a piovere.
Una pioggerellina sottile sottile, come tanti fili di acciaio che tenessero sospesa la terra alle nubi. Ed in breve tutto fu velato di pioggia e i campani delle vacche erano sempre più lontani, i passi delle donne nelle stanze erano sempre più lontani, il rintocco delle ore era sempre più lontano, sempre più, finché il professore non udì più che la pioggia scrosciare con monotonia rabbiosa e si sentì solo di solitudine spaventosa.
Agli uomini come il professor Emanuele, rabbiosi contro sé stessi ed il mondo, la pioggia di settembre spunta gli artigli: rimangono con una malinconia struggente che sale su dal più profondo del cuore, da quelle solitudini abissali che non sanno scandagliare e per cui ogni uomo è un enigma a se stesso.
Sale su come una nebbia che vela tutto attorno a loro e li fa ritrovar soli.
Il professore s'appoggiò ai vetri a contar le gocce d'acqua che passavano attraverso un forellino della grondaia: una, due, tre, dieci, cento... una, due... tre. E i numeri si ammucchiavano, si moltiplicavano nella sua memoria con una rapidità vorticosa: gli giravano attorno, lo penetravano: uno, due, tre... dieci... cento... Si ritrasse improvvisamente con un moto d'orrore: gli pareva che quello fosse il supplizio della goccia di cui tanto si parla, ma intensificato, centuplicato, condotto all'esasperazione.
Si sentiva piombar le gocce una per una nelle profondità remote dell'anima, riempirla, soffocarla. Gli pareva che tutta quella pioggia, tutti quei fili d'acqua gli si aggrovigliassero nel cervello come catene serpentine, se ne sentiva colmo.
Si ritrasse. No, no; contar le gocce non andava. Non aveva contato gocce tutta la vita?
Ma sì: i giorni, le ore, gli attimi, gocce d'acqua che aveva visto arrotolarsi e cadere, e piombare nel l'anima ed ammucchiarvici.
Gocce: i tormenti della fede negata dell'amore negato, della vita negata nel nome della ragione. Aveva guardato e contato tutto: le cifre s'erano aggiunte alle cifre ed era avvolto da una rete inestricabile. E tutte quelle gocce che era andato ammucchiando negli abissi dell'anima, gli erano risalite a poco a poco alla superficie, ne aveva avuto paura: ora, ad un tratto si sentì soffocare dal suo passato.

Si sentì pieno di se stesso e dei suoi giorni e dei suoi tormenti: un vaso colmo, un lago che ha raggiunto gli argini. Non un mare: e ripeteva a se stesso il lamento di Giobbe: «Numquid mare ego sum» Sono io forse il mare?
Era alla fine, in lui non c'era più posto per nulla: nessuna sensazione, nessun pensiero, nessun amore. Aveva toccato le sue colonne d'Ercole: e di là, non c'era più nulla.
La misura era colma: era un uomo che non ha più nulla da dire, da fare e da sapere. Un cadavere ambulante.
Tremò a questa terribile visione d'un professor Emanuele che girava le strade, cadavere, e diceva: «Fate, dite, lavorate: io sono già arrivato: il mio vaso è colmo » e si faceva lavare dalla pioggia e circondare dalla nebbia.
- La pioggia. Guardò fuori dalla finestra per vedere se piovesse ancora: sì, e c'era, sotto la pioggia, nei campi, una strana figura d'uomo che lavorava.
Lavorava di zappa ed aveva indosso un paltò nero, con le maniche inverosimilmente lunghe: non ne poteva vedere il volto, ma fu colpito da quel paltò nero così ampio per un omiciattolo che sembrava da lontano tutto stretto in se stesso. Il professore dimenticò per un istante la sua visione per esaminare, con tutte le forze dell'anima e del corpo quel contadino che zappava con indosso un paltò impossibile.
S'alzò, si mise il soprabito, uscì: non sapeva che cosa andasse a fare, perché si alzava e se ne andava con tutta quell'acqua che le nubi lasciavano piovere sulla terra.
Prese per i campi e fu ben presto vicino al contadino che zappava: sedette su una pietra bagnata e si mise ad osservarlo così intensamente che l'uomo sentì il peso di quello sguardo e si voltò.
Sorrise e gli si fece vicino. Sorrideva con tutta la larghezza della bocca e con gli occhi dolci di una dolcezza senza fine. Quando gli fu ben vicino, si fece serio. Improvvisamente si fece serio per tutto il volto che la pioggia carezzava, e si guardava il paltò sbrindellato e verdastro sulle spalle.
«Mi chiamo Calimero, non lo sai? » disse. E pare- va che temesse chissà che dalla risposta del professore.
«Non lo sai? »
Le sue parole spalancavano abissi, vi camminavano sopra senza paura. Il professor Emanuele sentiva dietro quelle parole gli abissi inscandagliati dell'anima di un idiota.
«Sì che lo so» rispose tranquillamente. Il volto dell'idiota si illuminò.
«Calimero, Calimero, Calimero» ripeté: senza un accento particolare.
Il professore gli chiese: «Hai freddo? ». Ed accennava al paltò.
L'idiota faceva segno di no, che non aveva freddo. E perché si metteva il paltò a lavorare se non aveva freddo?
Allora Calimero si fece a raccontargli una lunga storia di cui il professore non capì altro che quel paltò era come un talismano, un «menabuono».
Il viso dell'idiota rifletteva con una mobilità impressionante tutti i significati nascosti di ogni parola. E siccome parlava calmo, senza fretta, il professore aveva tempo di sentire in sé vibrazioni diverse ad ogni parola.
E una cosa che non succede spesso, ma quando succede fa paura il sentire in ogni parola un mondo diverso.
Ci sono uomini che diventano pazzi ripetendo sempre la stessa parola.
Calimero portava la barba di un mese ed era orribile. Ma il professore lo osservava con attenzione.
L'idiota scoppiò d'un tratto in un fiume di parole contro gli spiriti che non lo lasciavano lavorare e si mise a piangere e ridere spasmodicamente, parlando, parlando come se fosse la sua ultima ora di vita e dovesse parlare ora per un'eternità di silenzio.
Che cosa c'era in quell'uomo? Il professore credette di capire che anche quello era un vaso pieno; ma pieno di mistero, pieno di ombre che non si riflettevano su nessuna parete, piene d'infinite vite quasi sepolte nel silenzio. E si sentì preso da pietà: un senso nuovo lo struggeva. Nuovo: non l'aveva mai provato: malinconia, desiderio, disperazione, spasimo. Tutto nel suo spirito, nel suo vaso colmo.
E gli pareva che qualche cosa stesse per succede- re: qualcosa di nuovo, portato su dalle nebbie ondeggianti che venivano su come eserciti bianchi all'attacco delle cime.
D'improvviso l'idiota atteggiò il volto a stupore e poi a paura e poi a terrore pazzo e gridando: «Calimero! Calimero! Calimero!» si mise a correre con tutte le sue forze. E correndo accennava alle nebbie che sorvolavano velocemente le cime. C'era nel suo grido un terrore di cui non si rendeva conto il professore, che da parte sua teneva dietro al pazzo, incespicando, cadendo, chiamando, con una gran voglia di piangere. Un lampo lo illuminò: il fiume! Calimero correva verso il fiume in piena, vorticoso, pauroso. E ben presto gli fu presso e cacciando un urlo vi si gettò a copofitto dalla riva. E il professar Emanuele piangeva, e le lacrime gli si mischiavano in volto alla pioggia che aveva ripreso a venir giù con forza. Vide, contro un sasso, la testa spaccata del pazzo ed il paltò rigonfio, con le maniche inverosimilmente lunghe.
Un pensiero gli nacque nel cuore.- questa doveva essere la sua fine. Un vaso colmo che si spacca contro un sasso. L'uomo finito che beve il fiume fino alla morte.
Questa: doveva. Non c'era alternativa... Proprio non c'era alternativa?
Ma e Dio? C'era? Cos'era? Dov'era?
Gli si affacciò alla mente nella sua lineare e spaventosa semplicità la domanda che si fa ogni uomo quando è pieno di sé, ed ha bisogno di vuotarsi di sé per colmarsi in una nuova misura, di qualcosa d'altro, di più grande, di eterno.
Proprio non c'era, oltre la sua misura, che la misura della morte?
E Dio? Cos'era? Chi era? Dov'era?
Dio, il Dio d'Abramo, d'Isacco, di Giacobbe. Cristo. Non la complicata o astratta concezione filosofica. Dio-realtà: non Dio-idea.
E improvvisamente vide tutto chiaro davanti a sé, tutta la sua via segnata. E comprese la sua misura: Dio.
Alzarsi verso Dio allarga gli orizzonti e le misure. Voler essere noi stessi, è rinchiudersi, non veder più nulla.
Ed ora che capiva di doversi dimenticare, gli pare- va d'essersi ritrovato. Ora che, guardando il paltò che la corrente gonfiava, capiva d'essere invecchiato male, gli pareva di ritrovare la sua vera ed eterna giovinezza, come si ritrova un anello d'oro sotto la polvere del tempo.

Gianni Rodari - 4 ottobre 1936

Gianni Rodari - Passi nel silenzio

Passi nel silenzio

Si ferma di scatto.
Sopra la sua ombra si abbassa l'ombra delle case e fluttua quella del cielo.
Ci sono, nella notte, le poche stelle che guardano: e quei passi.
Quei passi che rompono il silenzio chiuso intorno a lui: passi di ombra invisibile che picchiano al suo cuore.
Egli camminava in punta di piedi per paura dei propri passi: aveva paura persino del respiro grosso che gli usciva dalla bocca. Ad un tratto avvertì dei passi dietro di sé, lenti, instancabili, persecutori.
Colpi di martello.
Gocce d'acqua. - Si è fermato. Il rumore si ripete, si ripete: risuona per le vie solitarie con monotonia incessante. Le strade sono come le vene della città, piene d'ombra e quel rumore di passi è il loro pulsare.
Ora egli riprende a camminare.
Vorrebbe quasi mettersi a piangere, tanto ha paura e vergogna di se stesso. Trascina nel silenzio la sua giovinezza sciupata: trascina con sé il peso dei suoi peccati e dei suoi rimorsi.
L'ebrezza è svanita di colpo da quando è uscito nella notte e si è sentito tanto colpevole e tanto vile.
Vent'anni: ed è l'ombra di se stesso.
Cammina senza far rumore ascoltando i passi di quello strano ed invisibile nottambulo. Forse d'un vagabondo che non ha trovato posto al ricovero: passi ritmici come movimenti d'orologeria. Massimo cammina più in fretta per non lasciarsi raggiungere: per fuggire l'ossessione di quel rumore.
Gli sembra che non siano passi d'uomo: che qualcuno lo accompagni che non vesta carne ed abiti d'uomo. Ha la vaga idea che questa notte sia la sintesi di tutta la sua vita.
Cos'è stata finora la sua vita? Notte: notte continua, con sola luce i lumini delle Madonne ai crocicchi. Ed egli vi ha camminato senza fede e senza speranza, trascinandosi il peso del suo peccato, ombra di se stesso.
Ed ha sempre sentito, di questo è sicuro d'una sicurezza impressionante, ha sempre sentito questi passi d'ombra invisibile: una presenza misteriosa che lo ha seguito continuando nel suo cammino.
Dovunque fosse: una presenza incessante intorno alla sua anima, a cui non ha dato mai un nome. Ha sempre avuto paura di chiamarla semplicemente Dio: di voltarsi e correre incontro a questo mistero che forse aveva in sé tutta la luce della sua vita.
Come ora, che vorrebbe voltarsi e rifare la strada all'indietro per incontrare quell'ombra che potrebbe anche avere con sé una lanterna per rischiarare, e fare la strada insieme.
Ma ha paura: fugge. Ha paura di mostrarsi così, sconciato dal vizio. Come ha avuto sempre paura di correre incontro a Dio, di conoscere la presenza misteriosa, che ha avvolto la sua anima di rimorsi e fare insieme la strada della vita. Ma Dio lo ha sempre seguito: non gli ha parlato perché voleva forse
Soltanto farsi sentire. Massimo ha sempre sentito il soprannaturale, anche quando il fango gli tappava gli occhi con groppi più tenaci.
Ma non ha mai potuto vedere: sempre negli occhi la putredine di Lazzaro nel sepolcro gli impediva di aprire l'anima alla contemplazione dell'Infinito ed all'amore di Dio. Nella vita è stato finora proprio come Lazzaro nel suo sepolcro: eppure ha sentito sempre, fuori del sepolcro, la presenza del Resuscitatore.
Gesù forse aspettava che egli stesso gli chiedesse la vita e la visione.
Massimo è sempre fuggito: ha continuato la sua strada nella notte, sordo al richiamo dei passi stanchi ed instancabili.
Perché per correre incontro alla Luce, bisogna voltar le spalle a ciò che si ama.
Massimo ha sentito nella notte un vibrare di voci come se molti uniti insieme pregassero. La cantilena dolcemente monotona delle preghiere dette in comune.
Qui, all'angolo, c'è una porta aperta: una chiesa.
Ancora si prega, di notte? Di notte ancora sono aperte le chiese?
La porta è aperta: se entrasse?
«Non minacciano: non mi possono cacciare».
Sosta un attimo, indeciso, sulla soglia.
Le voci si sono fatte più vicine: sente anche profumi d'incensi che gli alitano in viso.
Si fa coraggio ed entra adagio adagio, in punta di piedi come se avesse paura di farsi troppo notare.
L'altare è illuminato a giorno: v'è in alto, tra i ceri ed i fiori, un tempietto d'oro in cui è sospesa una cosa bianca ed immacolata.
Ed ai piedi dell'altare, inginocchiati nelle panche, dei giovani, giovani come lui ed anche più di lui, stanno immoti in adorazione.
Volti radiosi di adolescenti: facce dure di giovani provati: sconforti, promesse, preghiere. Hanno le mani giunte come, nei presepi, i pastorelli presso la stalla di Gesù.
Massimo si guarda le mani lisce, curate, le braccia ciondoloni lungo il corpo magro: la persona ben vestita. Si osserva con pietà. Ha compassione di sé.
All'entrare in questa vecchia chiesa, il primo sentimento lo ha preso, è una malinconia che gli stringe il cuore. Vorrebbe che le sue ginocchia avessero tanta forza da potersi piegare davanti a quel Pane che non è pane, come quelle dei giovani adoratori: che le sue mani avessero tanta forza da giungersi: che i suoi occhi si fissassero nel Dio vivente. Quello di cui ha sentito sempre la presenza intorno a sé senza saperla invocare, che lo ha sempre seguito nella sua notte con amore instancabile.
Perché non lo può?
Sente che sarebbe tanto semplice inginocchiarsi e credere e pregare: come quei giovani che mentre egli trascinava nel silenzio la sua colpa grave come una grossa pietra, pregavano.
E forse i passi nell'ombra erano le sommesse preghiere di questi giovani, di altri, che lo seguivano e lo chiamavano con insistenza, quasi lo ossessionavano di richiami.
Le preghiere di tutti i credenti, il sacrificio di tutti i martiri, l'amore di Cristo presente sul mondo e nella sua anima: tutto ciò era in quei richiami.
E perché non ascoltare?
Perché tapparsi le orecchie e fuggire?
Forse perché la pietra del suo sepolcro era pesante a smuoversi ed egli doveva rinnegare tutto il suo passato?
Anni di tormento: e capire soltanto ora d'avere sbagliato, d'aver camminato per vie lontane, d'avere ascoltato altri richiami ed altre voci!
Non importa: anche fra quei giovani qualcuno
avrà dovuto rinnegare un passato.
Che importa il passato?
Ciò che non è più, ora non ci può giovare. Oggi la vita non è quella di ieri, il mondo non è quello di ieri, vizio il cuore non è quello di ieri: tutto scorre, come l'acqua in un fiume.
E' tanto semplice credere e pregare!
Massimo lo sente: la sua anima vibra di passione in quest'ora decisiva; ma il suo cuore è pronto.
Egli si inginocchia sul nudo pavimento: gli sembra d'inginocchiarsi sul suo passato rinnegato e distrutto.
La preghiera rifiorisce sulle sue labbra che il ha inaridite.
Domani rifiorirà la vita della grazia nel suo cuore sacrificato.

Gianni Rodari - 6 settembre 1936

Gianni Rodari - Suo figlio prete

Suo figlio prete

«Vendete la vacca! Signor padrone, mi tocca vendere la mia vacca»
«Sentite, gli gridò in faccia, fate come vi pare.»
«Ma non posso, signor padrone! Ci pensi un poco» E si torceva le mani per la disperazione. Inutile. Bisognò proprio che Pasquale si decidesse: quando i debiti ci sono, si pagano. E quando anche il padrone ha i suoi, non si può aspettare che torni la buona annata: bisogna vendere e pagare.
Il padrone era un brav'uomo. Ma anche i signori hanno i loro fastidi: e poi ci hanno il decoro da mantenere. Stavolta era inflessibile.
Dunque Pasquale andò in istalla, dove la vacca, una grossa bestia dagli occhi mansueti, stava sdraiata nel letto di foglie secche.
«Su, levati su, poverina te, che ti tocca di cambiare padrone!"»
Quasi ci aveva le lagrime agli occhi.
L'accarezzò e la baciò, come si fa con le persone di famiglia, perché ormai la vacca era di famiglia, e la si trattava con bei modi.
«Il diavolo la porti padrone! Levati su, poverina!». Le attaccò al collo un campano e una corda e menò con sé il figlio maggiore. Presero per i campi. Andavano per i campi in tre, tristi e tranquilli. Perché non c'è niente da fare: se ci sono i debiti, si pagano e quando anche il padrone ha i suoi, bisogna vendere la vacca e crepare di fame, crepare di malinconia, che il diavolo si porti anche il padrone.

Al ritorno Pasquale si sedette sulla soglia in faccia ai campi e piangeva come un bambino perché tutto era andato male, e i figli, tornando dai campi, erano sfiniti e taciturni, la massaia andò dal signor padrone con i marenghi che erano molti e suonavano. Quella sera mangiarono appena i più piccoli. Gli altri si provarono ad ingollare qualche cucchiaio di minestra: non volevano andar giù.
Allora Pietro, che aveva sedici anni ed il volto angoloso come campo arato, e più cervello in capo, che forza nelle braccia, s'andò a mettere vicino al vecchio. Pareva che avesse da dire qualche cosa e non diceva nulla. Finalmente si decise:
«Pà! Sentite, pà».
Diventò tutto rosso e non aveva la forza d'andare avanti. «Sentite, pà: io voglio farmi prete».
I ragazzi alzarono la testa spaventati.
Pasquale non parve aver capito. Gli piantò in fac¬cia due occhi di fuoco e disse:
«Cosa c'è?»
«Non avete sentito, pà? » riprese Pietro. «Non avete sentito perché ci avete troppo dolore in cuore. Anch'io, pà, ci ho tanto dolore. Voglio fare il prete e pregare per voi. Non fate quella faccia: mica vi ho detto una cosa cattiva. Non siete contento, pà?»
A Pasquale parve che gli si spezzasse il cuore: si alzò furioso e si mise a gridare:
«Anche questa ci voleva! Vai all'inferno, te e il malanno. Adesso che tutto va a male ti metti a queste idee. O dove li prendo i soldi? E poi devi stare con noi a crepar di fatica; devi provare anche tu che cosa vuol dire andare a male annata, che ci tocca vende¬re la vacca e l'anima per pagare!».
Pietro era calmo.
«L'ho già provato, pà. Voglio fare il prete.»
«E che cosa m'importa? Ci sputo sopra, io!»
In quella passava il curato che udendo gridare si fermò.
«Che ci avete, Pasquale, nella lingua?».
«E lei, e lei» riprese a gridare. «E lei dove pensa che li abbia i soldi per far fare il prete al mio figliolo?»
Il curato sapeva già tutto. Entrò in casa.
Parlò tutta la sera con la sua voce buona e profonda che pareva che in quella casa ci fosse entrata la consolazione.
«Sentite Pasquale. Se l'anno vi è andato male, il Signore vi benedirà da un'altra parte. Lasciate fare a lui che ci vede meglio di noi. Quanto al vostro figliolo, se vuol fare il prete, lasciate che segua la sua strada. I soldi? Ma quelli vengono da soli, benedett'uomo. Ci sono io, c'è tutta la brava gente del paese che sarà contenta di aiutarvi. Io, qualcosa al sole ci ho. Vendo, Pasquale! Non dite male del Signore che accomoda tutto. Se il vostro figliuolo ha cuore ed intelligenza, sarà un buon prete. Una consolazione per voi che diventate vecchio, Pasquale. Lasciate fare». Finché lo persuase e li persuase tutti per benino.
Quando fu ottobre lo accompagnarono un pezzo, tutto già vestito di nero, con gli occhi lustri e il cuore non sapevano se contento o piangevole.

Quell'anno lavorarono con ardore.
Pasquale si sentiva rinascere. Respirava l'aria fresca dell'alba e pensava che il mondo è pur bello
così come ce l'ha dato Dio, col sole, i prati e le montagne verdi e vecchie. Ora non pensava più che a suo figlio, quello che studiava in città sui libri che costavano tanti soldi e dentro c'era tanta scienza, che era vestito di nero come i signori, e voleva fare il prete.
Quando arrivavano buone nuove dalla città, gli pareva che quel figliuolo fosse la sua benedizione e ne parlava con un po' di rispetto, come se fosse di¬ventato degli altri, e fosse meno suo figliuolo che del Vescovo e del Signore.
Passarono i mesi e s'avvicinava la bella stagione. La campagna progrediva bene per la mitezza del¬I'inverno. Ora c'era da temere maggio, con i suoi temporali e le sue grandinate che vi distruggono in un quarto d'ora il lavoro di un anno.
Ma Pasquale aveva fiducia, per via di quel figliuolo¬ pretino che era un po' talismano.
Invece andò ancora male. I contadini, disperati, videro venir giù per mezz'ora buona i chicchi grossi e secchi, torcendosi le mani, muti, con le lagrime agli occhi. Tutto era finito. Quando la sera tornò il sole le donne piangevano e gli uomini bestemmiavano.
Pasquale no. A sua volta era calmo. S'era sentito schiantare; ma aveva ancora fiducia.
Disse ai suoi che erano tristi ed avviliti:
«Male è andata finora, andrà bene poi: animo ra¬gazzi. Animo!».
Diceva così perché ora tutto era passato per lui in seconda linea: prima di tutto c'era il figlio prete.
Il padrone lo fece chiamare: era triste.
«Pasquale, devo vendere tutto. Cercatevi una casa, perché lì ci verrà quello che compra. Mi rincresce, Pasquale, per voi e per vostro figlio, ora che questi vi torna a casa».
Egli sorrise: «Ma cosa dice, signor padrone? Non fa nulla. Capisco. Fa bene, sa: fa bene».
Andarono ad abitare in una casa di sassi un po' fuori del paese. I figli andavano a lavorare negli sta¬bilimenti del paese vicino: tornavano a casa solo la sera. Una volta trovarono a casa il pretino, venuto su per le vacanze e Pasquale trionfante che diceva a tutti «Ecco vedete il mio figliuolo? Adesso ne sa come il dottore».
Però era diventato magro.

L'inverno fu triste. Talvolta non c'era da mangiare che pane. I piccoli piangevano e la madre sembrava l'Addolorata, che ha sette spade nel cuore.
Pasquale volle ad ogni costo andare a giornata. Faticava, s'incurvava, non mangiava più: ma volle lavorare. E sorrideva sempre, così come se pensasse agli angioli del Signore, che ogni uomo ne ha uno, povero Pasquale!
Quando si fu vicino a Natale, un giorno al curato arrivò una lettera dalla città.
Gli scrivevano i superiori di Pietro, per pregarlo di avvertire la famiglia che il ragazzo aveva bisogno d'aria sana di montagna, che era molto malato, così giovine, e che forse, non si poteva dire, ma

Il curato si spaventò: pure a Pasquale non lo disse subito. Andò in città e si prese il ragazzo che aveva la faccia bianca come la neve e gli occhi infossati che guardavano con stupore doloroso.
E, tutto il viaggio, tossiva, tossiva.
A Pasquale fecero credere che quell'anno era concesso che i pretini facessero Natale a casa loro, che era cosa naturale e non ci si doveva spaventare.
Ma Pasquale capì: diventò bianco e si sentì battere forte forte il cuore: un pensiero terribile gli attraversò la mente.
«Pietro!.… disse con un filo di voce…. Pietro!».
E gli baciò la mano scarnita. Gli pareva di morire, che il male fosse nel suo petto e lo rodesse e si facesse strada.
Una notte Pietro si sentì molto male.
Si mandò per il medico per il curato. E tutto era finito. L'angelo del Signore veniva sulla vecchia casa di pietra a prendere un angelo di carne.
Pochi giorni dopo, al funerale del figlio, Pasquale era invecchiato di vent'anni: curvo, stanco, muto.

Poi non fu più lui. Non aveva più fiducia, ora. Sta¬va tutto il giorno seduto presso il fuoco, senza parlare, senza toccare cibo. Schiantato.
E se il curato quando lo andava a trovare gli dice¬va che si facesse coraggio, crollava il capo.
Gli pareva che tutto il mondo gli fosse caduto sul cuore e glielo schiacciasse: provava un desiderio cattivo che davvero gli si schiacciasse il cuore, e lo si torturasse e lo si crocifiggesse.
Non vedeva nessuno.
Vedeva soltanto la lunga tonaca nera del figlio morto: lunga, lunga fino in fondo ad un abisso, nera come la notte di tutte le notti.
E gli pareva che avvolto in quella tonaca nera ci fosse il suo povero vecchio cuore.
Invece c'era un angelo: una sera uscì e stese la mano sui suoi occhi.
Pasquale si ricordò del Signore, che fa tutto per il meglio e che è padrone della vita e della morte. Se ne ricordò improvvisamente.
Sentì sui suoi occhi la carezza dell'angelo e pregò: con fervore, come se per la prima volta fosse a contatto con Dio.
Il giorno dopo si mise a letto.

Gianni Rodari 12 luglio 1936

Gianni Rodari - Fine di Maggio di un pazzo


Fine di Maggio di un pazzo

Ladisluo Robustiniani, pazzo tranquillo. La sua vita è stata un continuo prendere posizione di fronte a se stesso, un tormento di squadrare il suo spirito, scinderlo nei suoi elementi, analizzarlo, disegnarlo a linee rette e linee curve, trovarne il principio, il mezzo, la fine.
L'hanno ritirato in questa piccola casa di salute provinciale da cui si può ammirare il lago Maggiore, il grande Verbano dalle acque azzurre, come uno specchio ove il tempo abbia scavato rughe e solchi mutabili.
Pazzo tranquillo. Alto, magro, lo sguardo assente e la smorfia cinica. Attraverso i suoi calcoli è venuto alla convinzione d'essere Dio, l'Alfa e l'Omega di cui parla Giovanni nell'Apocalisse.
Questa è l'ultima sera d i maggio: le nubi distendono fantasie bizzarre sui monti bruni ed illimitati.
Ladislao Robustiniani sta seduto sulla terrazza belvedere. Guarda malinconicamente il lago tranquillo e le policromie del tramonto.
Gli sembra che il sole stia per precipitare in un mare di sangue, rosso dell'orgia d'un popolo oltreumano che beva l'oblio della notte.
Guarda le bizzarre nubi che si raccolgono meste attorno al sole.

Fin da ragazzo Ladisluo Robustiniani ha avuto una mania geometrica delle posizioni chiare, delineate, sicure, che si potessero abbracciare d'un colpo solo.
Avvertiva nella sua anima un tumulto di aspirazioni e di passioni che lo trascinava e gli dava quasi un senso di sgomento. Sentiva in sé qualche cosa di cui aveva paura, che gli sfuggiva, che non rientrava nel suo sguardo di osservazione. Si ripiegava su se stesso, si studiava, si diceva: «lo sono così, così e così!».
Con frenesia. Con ira. Voleva scoprire tutto se stesso ai propri occhi: poter esprimere la propria essenza, con una frase sola. Gli pareva, a volte, di conoscersi molto bene e di avere ciononostante una opinione errata di se stesso.
Sentiva in sé un secondo essere, un paradossale doppio io su cui con curiosità e con avidità sperimentava la sua psicologia geometrica.
Professore di matematica in una scuola milanese, stimato assai dai colleghi per la chiarezza delle sue sintesi e delle sue risposte a teoremi complicati; e l'immenso desiderio di conoscersi, crebbe in lui spa¬ ventosament.
La follia incominciò sui venticinque anni.
Vegliava le notti intere, la testa fra le mani, cercando la proposizione che gli desse in modo esatto ed elementare il suo tormento d'uomo.
S'era innamorato d'una giovane donna di dubbia moralità e studiava il suo amore come un anatomico studia il suo pezzo.
Tormento delle piccole cose; rimorso di desideri soddisfatti e di piaceri ottenuti; rabbioso lavoro pel pane quotidiano; continuo contatto con l'umanità che gli pareva stupida ed equivoca.
Ma sotto tutto questo egli sentiva qualche cosa di diverso, d'indefinito, d'indefinibile, d'infinito.
Si sorprendeva talvolta a meditare su linee rette tracciate a caso o su un calamaio rovesciato.
Ebbe paura dell'incipiente follia. Divenne strano e cupo. L'anormalità del suo contegno lo fece ogget¬to di sospetti e di leggende. Si diceva che avesse uc¬ciso, che il suo passato fosse una tragedia continua¬ta: lo si guardava come si guardano i geni o i pazzi.
Tuttavia a trent'anni si sposò. A trentuno ebbe dal¬la donna sua un figlio che chiamò Giovanni, dal nome del profeta di Patmos di cui conosceva il libro a memoria, di cui leggeva le pagine fremendo ed esaltandosi.
Avrebbe potuto rinascere alla semplicità in quel piccolo fardello di carne che gli veniva di lontano. Avrebbe potuto annientarsi in quella vita nuova: in¬vece con la nascita di Giovanni si fece più cupo e selvatico. Considerò per un anno se avesse fatto bene o male a mettere al mondo il ragazzo. Ora due elementi nuovi d'ignoto erano entrati nella sua anima: la donna ed il bimbo. Egli si sentiva ora triplice: uomo, marito, padre.
Ebbe fretta di tirare delle conclusioni. Per semplificare le cose, le confuse, le ingrandì, le spinse ai limiti
Ora non sapeva più nemmeno a che cosa pensasse.
Ben presto la sua passione per la moglie si spense. Si separarono tranquillamente, la donna tenne con sé Giovanni.
Cos'era ormai, del resto, Giovanni per lui? Carne.
Non anima. Come poteva aver dato vita ad un'anima egli che non sapeva definire la propria?
Si sentì più libero quando fu solo.
Pensò che se indefinibile era la sua anima, essa non esisteva.
Od era qualche cosa di più di un'anima umana: Dio?
La lenta evoluzione della sua follia lo portava ormai a considerarsi diverso, sostanzialmente dal resto dell'umanità.
Matematicamente doveva concludere d'essere Dio.
Lo scoperse una notte che dopo lunghe ore di meditazione aveva tracciato inconsciamente una retta.
La fissò, stupefatto come se non avesse fatto altro che tracciar rette e curve nella sua vita.
La fissò impaurito come davanti a qualche cosa di misterioso, d'inconcepibile, d'assoluto. Questo egli era dunque! Una linea retta, senza principio né fine, di cui né le sue meditazioni avevano potuto fissare le dimensioni, né l'amor famigliare era riuscito a fare un cerchio chiuso senza espansioni: Dio! «L'Alfa e l'Omega» dell'Apocalisse, «il principio e la fine Colui che è, che era e che ha da venire, l'Onnipotente».
Nel delirio si alzò, si guardò le mani, sfissò nello specchio gli occhi sbarrati come l'ultima luce nel l'abisso della morte, mormorando: «Dio!... Dio!». Poi cadde pazzo per sempre.
Il pazzo contempla il crepuscolo. Vaghe ombre si sono abbassate sul lago, sui villaggi, sui monti bruni ed illimitati.
Nel suo cuore vaga stasera un desiderio, indefini¬bile, perché ormai il suo destino è di non potersi più definire. Uno sconfinato desiderio nuovo. Egli sta seduto, osservando con lo sguardo melanconico.
Ha quarant'anni e ne dimostra sessanta.
La sua melanconia è tragica.
Lo divora senza ch'egli se ne possa rendere conto.
Ora sale dalla vallata vicina un lento rintoccare di campane. I villaggi cantano in quelle pure voci di bronzo la loro pace feconda.
Giungono quassù profumi d'incenso ed echi di canti.
L'ultima sera di maggio il popolo si raduna nelle chiese a cantare le glorie di Maria. Dicono le litanie e suonano le campane.
Un patriarcale inno d'amore sale da tutte le valli a questo pazzo tranquillo che ascolta le voci della sera.
Egli si scuote. Aveva forse bisogno della dolcezza inesprimibile di questo suono? …Don…don…don.
Egli che non ha amato mai nessuno all'infuori di se stesso.
È forse questa la sua colpa? Non avere amato e sentire il bisogno dell'amore nel fondo dell'anima.
Si scuote. Si lascia cullare a lungo da questa musi¬ca che gli potrebbe richiamare la prima Ave Maria! e non gli può richiamare più nulla, ma lo culla e lo accarezza come una mano stanca.
Quando le campane tacciono e l'infermiere, venu¬to tacitamente a farlo rientrare, gli posa una mano sulla spalla e si china piano piano su di lui, nei suoi occhi è una lacrima.
La prima.
L'ultima.
Domani Ladisluo Robustiniani tornerà a credere d'avere creato Adamo, Napoleone e Dante.

Gianni Rodari 31 maggio 1936

Gianni Rodari - Forza d'amore


A. Racconti e novelle di Gianni Rodari su «L'Azione Giovanile». Settimanale della Federazione Diocesana Milanese della Gioventù Italiana di Azione Cattolica.

Forza d'amore

Un omettino giallo e brutto. Cammina male. Tutto cappello e pastrano. Scende lentamente le scale interminabili e ripide: entra ne la via, rumorosa benché sia di mattina. Ma c'è il carretto del lattaio, il carretto del mugnaio, il carretto del panettiere. E c'è le vecchine che vanno a Messa con il velo in capo strascicando le ciabatte Da tutti i campanili della città le campane si chiamano e si rispondono.
Egli cammina assai lento a ridosso dei muri vecchi dai colori sbiaditi. Conosce tutti gli scrostamenti dei vecchi muri. Sa tutti i buchi che i monelli di due tre generazioni vi han fatto. E le parole che vi han scritte. E tutto egli sa dei vecchi muri. Da vent'anni fa questa strada, ogni mattina. Ha strisciato contro questi vecchi muri trecento giorni l'anno, quattro volte il giorno. Ed ha cambiato solo una volta il pastrano, proprio perché era tutto mende e sfilaccia. E stamattina ancora, come sempre, guarda il marciapiede consunto e le finestre chiuse. Si dondola su le gambe storte, pensoso. Stamattina e sempre.

Entra in una chiesa. Vecchine e donnette inginocchiate per le panche e un prete che dice Messa. Egli si fa il segno della Croce, restando in fondo. Sente lo squillo di campanello del Sanctus. S'inginocchia. Perché egli crede e non si sente forte che quando è in ginocchio.

Venti anni fa, pensava ancora a lottare per farsi un nome, abbacinato da un sogno di gloria. Ha scritto molte cose ed era pieno di sé. È stato abbattuto e non gli è restata che la Croce di Cristo. Quella che sorge consolatrice da tutte le rovine spirituali. Quella che ha sempre le braccia aperte.

Allora s'è rinchiuso in un ufficio, non ha pensato più che a sua madre, vecchia povera donna ignorante che ha pianto e pregato per lui quando la chimera lo teneva lontano lontano. Ha trovato nei meandri del suo cuore turbolento la pace e la fede, come si trova sempre nello squallore autunnale una foglia verde che trema.
Ora è i1 in ginocchio.
E' squillato il campanello dell'Elevazione. Ora egli deve andare al lavoro perché si fa molto tardi. S'alza. Esce.

A casa sua madre dormiva quando partì. Egli non ha voluto destarla e s'è fatto il caffè, così, semplice¬mente, sorridendo. E sua madre sorrideva nel so¬gno. Non ha voluto destarla. Ed essa dormiva nel grande letto matrimoniale, vecchio di quattro generazioni.
Esce ne la via di nuovo. Striscia contro i muri e trova la porta del suo ufficio. Una porticina verniciata da poco, in un angolo silenzioso: un angolo da ar¬chivio. Egli spinge con un sospiro la porta che s'apre taciturnamente. Entra. Richiude. V'è di già un uomo al lavoro. Alza un poco la testa per osserva¬re il nuovo venuto.
«Buon giorno!».
«Buon giorno».
Egli si leva il pastrano e l'appende ad un chiodo del muro: un chiodo vecchio vecchio.
Siede. Non s'ode per poco che la corsa delle due penne sui fogli bianchi ed il fruscio dei fogli.
Sta copiando un libro che uscirà fra poco e l'autore non ha tempo di copiare.
Ma ci sono due copisti ch'han l'ufficio e lo studio in un angolo buio da archivio.
Egli scrive e scrive distendendo lunghi sogni biz¬zarri di righe nere sul foglio bianco. Con una furia frenetica. Senza badare allo scipito contenuto del li¬bro. Pensa al suo avvilimento, al suo sogno di gloria vanito nel turbine della vita. Ha un interno moto di ribellione.
Ma ecco: si ricorda di sua madre. Si calma. Sorride.
Ora la penna scorre leggera come un volo d'om¬bra ed egli ha l'impressione di scrivere pagine d'oro
sul libro della sua vita. Sa di valere più d'un giorno, quando i suoi articoli filosofici scatenavano polemiche e discussioni: e sua madre piangeva.
Ora essa dorme contenta nel gran letto degli avi. Dorme ancora, non si desta. E pure è già squillato il segnale della seconda Messa! Ella dorme e sorride ancora.
Ecco che l'altro impiegato ha deposto la penna. È stanco. Va alla finestra sbuffando.
Ma egli lavora e non s'alza. Sa che l'altro non ha più una madre che gli stia nei pensieri come una lampada di consolazione. Sa che l'altro è solo e non ha Gesù cui sorridere nel lavoro per averne un poco di forza: solo un poco da arrivare a mezzodì. Egli ha Gesù e sua madre: di più non può desiderare.
«Non siete stufo di questa vitaccia?».
Risponde dolcemente: «No».
«Siete peggio d'una macchina: ecco cosa siete!» E sbuffa.
Risponde dolcemente «Sì». Ma non alza il capo dal lavoro.
La penna scorre sul foglio bianco, leggera come il respiro d'un bimbo.
Come il respiro della madre che dorme nel torpore d'una mattinata invernale. E pure è l'ora che le don¬ne vanno per le compere. Ella dorme ancora.
Egli pensa: «E se anche a me morisse, come a lui?». Ha un brivido di spavento.
Pensa: «Oh! Tanto, poco ha da vivere ancora. Dalla mia vita non posso più spremere che amore: il resto tutto l'ho spremuto. Morrei con lei ed anche sotterra le terrei compagnia».
Pensa: «Le mamme non muoiono mica: anche sot¬terra si ricordano d'aver dei figliuoli che bisogna sostenere nel turbine con la grande forza d'amore».
Pensa: «E poi ho Gesù. Gli posso domandare, gli posso chiedere di morire».
E di nuovo la penna è leggera come una piuma d'angelo.
Come le palpebre della madre, chiuse nel sonno che non ha fine.

Gianni Rodari 3 maggio 1936

martedì 2 febbraio 2010

Gianni Rodari - Che cosa ci vuole





Per fare un tavolo
ci vuole il legno,
per fare il legno
ci vuole l'albero,
per fare l'albero
ci vuole il seme,
per fare il seme
ci vuole il frutto,
per fare il frutto
ci vuole il fiore:
per fare un tavolo
ci vuole un fiore.

Gianni Rodari - La sala d'aspetto

Chi non ha casa e non ha letto
si rifugia in sala d'aspetto.

Di una panca si contenta,
tra due fagotti s'addormenta.

Il controllore pensa: "Chissà
quel viaggiatore dove anderà?"

Ma lui viaggia solo di giorno,
sempre a piedi se ne va attorno:

cammina, cammina, eh, sono guai,
la sua stazione non la trova mai!

Non trova lavoro, non ha tetto,
di sera torna in sala d'aspetto:

e aspetta, aspetta, ma sono guai,
il suo treno non parte mai.

Se un fischio echeggia di prima mattina,
lui sogna d'essere all'officina.

Controllore non lo svegliare:
un poco ancora lascialo sognare.

Gianni Rodari - Teledramma

Signori e buona gente,
venite ad ascoltare:
un caso sorprendente
andremo a raccontare.

È successo a Milano
e tratta di un dottore
che è caduto nel video
del suo televisore.

Con qualsiasi tempo,
ad ogni trasmissione
egli stava in poltrona
a guardare la televisione…

Ma un dì per incantesimo
o malattia (che ne dite?
Non può darsi che avesse
la televisionite?)

durante un intervallo
con la fontana di Palermo
decollò dalla poltrona
e cadde nel teleschermo.

Ora è là in mezzo alla vasca
che sta per affogare:
parenti, amici in lacrime
lo vorrebbero aiutare;

Chi lo tira per la cravatta
chi lo prende per il naso
non c’è verso di risolvere
il drammatico telecaso.

Gianni Rodari - Lo zampognaro







Se comandasse lo zampognaro
che scende per il viale,
sai che cosa direbbe
il giorno di Natale?
«Voglio che in ogni casa
spunti dal pavimento
un albero fiorito
di stelle d'oro e d'argento».
Se comandasse il passero
che sulla neve zampetta
sai che cosa direbbe
con la voce che cinguetta?
«Voglio che i bimbi trovino,
quando il lume sarà acceso,
tutti i doni sognati,
più uno, per buon peso».
Se comandasse il pastore
dal presepe di cartone
sai che legge farebbe
firmandola col lungo bastone?
«Voglio che oggi non pianga
nel mondo un solo bambino,
che abbiano lo stesso sorriso
il bianco, il moro, il giallino».
Sapete che cosa vi dico
io che non comando niente?
Tutte queste belle cose
accadranno facilmente;
se ci diamo la mano
i miracoli si fanno
e il giorno di Natale
durerà tutto l'anno.

Gianni Rodari - La tribù degli indiani Cucù






Conosci la tribù degli indiani Cucù?
C'è l'indiano Cuore che raccoglie le more,
c'è Cuoio un indianone che fa lo stregone,
c'è Scuola l'indiana che fila la lana,
c'è l'indiano Cuoco che accende un bel fuoco.
Conosci la tribù degli indiani Cucù?
Se li scrivi con la Q ride tutta la tribù!!!!!